WEBINAR : “Tamponi molecolari, test sierologici e vaccinazione dei dipendenti: obblighi e diritti delle parti”

PREMESSA

Da quando sono stati autorizzati i vaccini anti Covid-19 si è sollevato un dibattito sul rapporto tra poteri datoriali e obbligo di vaccinazione con la formulazione dei seguenti quesiti:

  • I datori di lavoro (pubblici e privati) possono imporre ai propri dipendenti la vaccinazione?
  • Quali sono le conseguenze nell’ipotesi di rifiuto?

Con riguardo alla legittimità della richiesta del datore di lavoro di vaccinazione dei propri dipendenti, le risposte offerte dagli Studiosi sono tutt’altro che omogenee.

Ebbene, secondo alcuni, la vaccinazione sarebbe da considerarsi alla stregua di qualsiasi altra misura di sicurezza, che sarebbe possibile per il datore di lavoro imporre ai propri dipendenti. Tale pretesa si fonderebbe sull’art. 2087 c.c., ovvero sull’art. 20 del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. 81/2008, T.U.) o, ancora, sull’art. 279 del medesimo T.U..

Di contro, v’è chi ritiene che tali norme, in assenza di una presa di posizione del Legislatore, non siano  sufficienti a ritenere legittima l’imposizione datoriale della vaccinazione.

Una diversa proposta è avanzata da chi sottolinea la necessità di distinguere caso per caso, sulla base dell’ attività svolta e delle conseguenze, anche nei confronti dei terzi, che dalla mancata vaccinazione discenderebbero. E così, negli ambienti sanitari o negli ambienti scolastici, la vaccinazione potrebbe essere imposta in considerazione dell’oggetto della prestazione lavorativa .

 

 

  1. IL QUADRO NORMATIVO

La disposizione fondamentale è rappresentata dall’art. 32 della Costituzione, secondo  cui

«la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Il secondo comma dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
È pacifico, quindi,  che l’art. 32, comma 1, della Costituzione tuteli la salute, oltre che come diritto fondamentale dell’individuo, come interesse della collettività. Si può ritenere  che il comma secondo della stessa disposizione si riferisca  alla dimensione personalistica dell’individuo in sé e per sé considerato, a prescindere dalla sua proiezione sociale: una dimensione che cede solo a fronte dell’intervento legislativo, con il prevalere delle istanze collettive. Ma diversa sembra la situazione nella quale la posizione del singolo non è affatto isolata ma molto spesso caratterizzata, in virtù del contratto e del suo adempimento, da un “contatto sociale” con terzi soggetti sui quali la sua scelta personalistica di rifiuto della cura potrebbe determinare significativi pregiudizi.

Ciò si verifica allorché le mansioni affidate al lavoratore comportino il contatto esterno con soggetti terzi fruitori del servizio offerto dall’organizzazione, tanto più̀ se i terzi sono soggetti fragili e particolarmente esposti al rischio (si pensi proprio al settore della cura degli anziani).

Quando a poter entrare in contatto con i terzi sia poi un operatore sanitario c’è da aggiungere che il proprium della sua prestazione – se si vuole, l’oggetto – sia la cura degli altri. Il che a fortiori implica l’evitare il rischio che la loro salute possa subire pregiudizio dalla prestazione medesima. Le stesse considerazioni possono formularsi nell’ambito scolastico.  E sotto tale profilo la tutela della salute corrisponde a quelle esigenze della collettività che l’art. 32, comma 1, Cost. contempla unitamente ai diritti fondamentali dell’individuo.

La giurisprudenza della Corte costituzionale ha ricollegato ad una dimensione solidaristica la necessaria rilevanza della salute come interesse della collettività sin dalla sentenza n. 218/1994. Con tale sentenza è stato precisato che la tutela della salute “implica e comprende il dovere dell’individuo di non ledere e di non porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri. Le simmetriche posizioni dei singoli si contemperano ulteriormente con gli interessi essenziali della comunità, che possono richiedere la sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, posti in essere anche nell’interesse della persona stessa, o prevedere la soggezione di essa ad oneri particolari. Situazioni di questo tipo sono evidenti nel caso delle malattie infettive e contagiose, la cui diffusione sia collegata a comportamenti della persona, che è tenuta in questa evenienza ad adottare responsabilmente le condotte e le cautele necessarie per impedire la trasmissione del morbo. In tal caso le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse. Non si tratta quindi di controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti, costituendo un onere per poter svolgere una determinata attività, sia nel contenuto degli esami. Questi devono essere funzionalmente collegati alla verifica dell’idoneità all’espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad esse è, o intende essere, addetto”.

Inoltre si aggiungono altri aspetti, come quelli della responsabilità risarcitoria del datore di lavoro che abbia consentito la presenza al lavoro del dipendente non vaccinato che abbia contagiato altri o che sia stato contagiato da altri. La responsabilità sussiste in virtù della semplice raccomandazione della vaccinazione “in presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali”, come ha rilevato la Corte Costituzionale a proposito della vaccinazione antinfluenzale (sentenza n. 268/2017) ponendo in luce le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute sottese alla vaccinazione.

Pertanto la Corte Costituzionale ha individuato uno spazio per la tutela dei preminenti interessi della collettività̀ anche al di là dell’imposizione legislativa del trattamento sanitario.

Particolare rilevanza assume l’obbligo di sicurezza di cui all’ art. 2087 c. c., in base al quale: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità̀ del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità̀ fisica e la personalità̀ morale dei prestatori di lavoro”.

Tale norma, pacificamente considerata norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone (e, dunque, consente) al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie al fine di tutelare l’integrità̀ fisica dei lavoratori.  Nell’individuazione delle “misure necessarie” di cui all’art. 2087 cc il datore di lavoro è tenuto a conformare le proprie scelte ed azioni al criterio della massima sicurezza possibile; tale scelta, inoltre, va attuata nel rispetto dei dati dedotti dall’esperienza e dalla tecnica, nello stato in cui essi sono nel momento contingente.

Ciò si verifica anche con riferimento alla “pandemia”, la cui connessione con l’ambito della sicurezza sul lavoro è dimostrata, oltre che dai c.d. protocolli anti – contagio, anche dal fatto che, mediante l’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2020 – il legislatore ha previsto che, nei casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro, ci si trovi dinnanzi ad un infortunio sul lavoro, al quale l’Inail assicura la relativa tutela.

Né le previsioni specifiche finora adottate in materia di lavoro, e cioè̀ l’affidamento delle misure di prevenzione dal rischio di contagio ai protocolli di cui alla legislazione di emergenza della scorsa primavera, possono ritenersi conclusive perché́ sono state introdotte quando di vaccini ancora neppure si parlava.

Neppure l’art. 29-bis L.40/2020 potrebbe sterilizzare sine die l’operatività dell’art. 2087 c.c. quale norma di chiusura del sistema, anche in relazione ai vaccini e alle future evoluzioni tecnico- scientifiche.

Sotto lo specifico profilo del contagio da Covid-19, è pacifico ed incontestabile che l’attuale stato della scienza e della tecnica comprenda l’esistenza e la disponibilità di vaccini.

Poiché, dunque, il progresso scientifico ha reso disponibile il vaccino, è doveroso per i datori di lavoro prenderlo in considerazione quale possibile misura di sicurezza e prevenzione, in diretta applicazione dell’obbligo di aggiornare e integrare il sistema di sicurezza imposto dall’art. 2087 cc al datore di lavoro: e ciò, ancor più nei casi in cui la particolarità̀ del lavoro comporti un maggiore rischio di contagio, come nell’ambito delle strutture sanitarie e socio-sanitarie o di quelle scolastiche.

In tema di aggiornamento del sistema di sicurezza, con particolare attenzione alla recente normativa emergenziale per Covid, va considerata la funzione  propulsiva del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile 2020, fondamentale in sede di valutazione dei rischi e di programmazione delle misure opportune per garantire il miglioramento nel tempo del livello di protezione ai sensi dell’articolo 28, commi 1 e 2, lettera c) del Dlgs 81/2008. In particolare si sottolinea una precisazione contenuta tra le premesse del Protocollo stesso, secondo cui “le imprese adottano il presente protocollo di regolamentazione all’interno dei propri luoghi di lavoro (…) e applicano le ulteriori misure di precauzione di seguito elencate – da integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione”. Tale disposizione assume un rilievo decisivo, perché, prescrivendo l’eventuale adozione di misure “equivalenti o più incisive”, assicura l’essenziale dinamicità ai protocolli sanitari aziendali, in perfetto allineamento con gli articoli 2087 del Codice civile e 29, comma 3 del Dlgs 81/2008.

Essenziale è poi l’art. 13-sexiesdecies del Dl 137/2020, che ha completato e chiarito il raccordo tra la disciplina emergenziale e il D. lgs. 81/2008, recependo la direttiva Ue 2020/739 del 3 giugno 2020 che, a sua volta, ha integrato la direttiva 2000/54/Ce del 18 settembre 2000, relativa alla protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da un’esposizione ad agenti biologici durante il lavoro, e a cui è riconducibile la parte del D. Lgs. 81/2008 relativa alla “Esposizione ad agenti biologici” (artt. 266 e seguenti).

Ebbene, la direttiva Ue 2020/739 del 3 giugno 2020 ha integrato la direttiva 2000/54/Ce inserendo la sindrome respiratoria acuta grave da Coronavirus (Sar-Cov-2) tra gli agenti biologici disciplinati dalla stessa direttiva 2000/54/Ce. Attualmente, pertanto, il SARS-CoV2 viene classificato come patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3.

L’art. 42 del d.lgs. 81/2008 prevede, per quanto di interesse, che “Il datore di lavoro… in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”: ciò significa che, ove il medico competente rilevi l’inidoneità specifica alla mansione, il datore di lavoro sarà anzitutto tenuto ad allontanare il lavoratore dalla mansione, al fine di garantire la sicurezza del lavoratore stesso.

Il medico competente valuterà l’idoneità dei lavoratori alle proprie mansioni, potendo esprimere un giudizio di inidoneità ove ritenga che, nonostante l’utilizzo degli altri dispositivi di protezione, il singolo lavoratore sia esposto (e/o esponga altri) a d un rischio eccessivo che sarebbe scongiurabile diversamente, ad es. mediante la vaccinazione.

In tal modo, avvalendosi del giudizio tecnico espresso dal soggetto che la                  legge gli affianca per valutare l’idoneità dei lavoratori, il datore di lavoro potrà                  garantire la sicurezza dei lavoratori unitamente a quella dell’ambiente di lavoro, a               maggior ragione ove questo sia frequentato anche da altri soggetti; e, ovviamente, sarebbe posto al riparo da eventuali contestazioni essendo stato supportato dal                giudizio del medico. Un giudizio, quest’ultimo, oltretutto sindacabile in sede di        impugnazione da parte di un organo terzo quale la commissione medica ai sensi dell’art. 42, comma 9, del d.lgs. n. 81/2008.

L’art. 41 del d.lgs. 81/2008, che disciplina le procedure per la verifica della idoneità̀ del lavoratore alla mansione specifica, elenca le tipologie di visite effettuabili dal Medico Competente sul lavoratore viene sottoposto e che si concludono con il giudizio di idoneità o inidoneità alla mansione specifica assegnatagli: il comma 2, lettera b) di tale norma prevede la visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità̀ alla mansione specifica” e precisa che “la periodicità̀ di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l’anno. Tale periodicità̀ può̀ assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio.

Il ruolo del Medico Competente è, infatti, essenziale quanto allo sviluppo e alla corretta applicazione delle procedure di sicurezza ai sensi del d.lgs. 81/2008; in particolare, ai sensi dell’art. 25 del decreto, il Medico Competente ha il compito redigere il Piano Sanitario (o Piano di Sorveglianza Sanitaria o Protocollo Sanitario): “il Medico Competente… programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più̀ avanzati”.

Tra le misure che il Medico Competente può inserire nel Protocollo Sanitario “in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più̀ avanzati” ci sono, ovviamente, anche i vaccini – incluso eventualmente il vaccino anti Covid-19.

A fronte del giudizio di inidoneità alla mansione specifica il datore di lavoro ha l’onere di assegnare al dipendente una mansione per la quale sia idoneo.
È pacifico che la mansione non deve essere creata ex novo, ma deve essere presente nell’organigramma.

Dunque, può accadere che non vi sia alcuna mansione disponibile: in caso di inidoneità temporanea, il datore di lavoro sospenderà il lavoratore dalla prestazione.
Prima della individuazione di una ‘nuova’ mansione e prima della sospensione, il datore di lavoro valuta se collocare il dipendente in smart working, cioè se la mansione è compatibile con la modalità da remoto. Non mi dilungo qui sullo smart working perché per le professioni sanitarie normalmente non è una strada percorribile.

Nell’art. 41 che sono previste le procedure per la verifica della idoneità/inidoneità del lavoratore alla mansione specifica: in sostanza la norma elenca le tipologie di visite effettuabili dal Medico Competente, alle quali il lavoratore viene sottoposto e che si concludono con il giudizio di idoneità/inidoneità alla mansione specifica assegnatagli.

Tra le tipologie interessa qui la “visita medica periodica per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica”. La norma precisa che “la periodicità di tali accertamenti, qualora non prevista dalla relativa normativa, viene stabilita, di norma, in una volta l’anno. Tale periodicità può assumere cadenza diversa, stabilita dal medico competente in funzione della valutazione del rischio”.

Bisogna avere ben presente anche che non è possibile sottoporre a visita il lavoratore per determinazione unilaterale del datore di lavoro.

Caliamo nelle norme esaminate il caso del lavoratore che, potendolo fare, non si vaccina.
Come attuare concretamente l’iter che si conclude con il datore di lavoro che sospende dalla prestazione il lavoratore renitente e lo esonera dalla retribuzione?

Entriamo nel vivo della seconda parte: il ruolo fondamentale del Medico Competente, dal momento che al giudizio di idoneità/inidoneità alla mansione specifica si giunge tramite la sorveglianza sanitaria, che si attua nelle visite previste dall’art. 41.

Tra gli obblighi del Medico Competente, previsti dall’art. 25 del D.Lgs. 81/2008, vi è la redazione del Piano Sanitario o Piano di Sorveglianza Sanitaria o Protocollo Sanitario: “il Medico Competente … programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifici e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati”.

Cos’è il Piano Sanitario?

In sintesi, è lo strumento di programmazione ed effettuazione della sorveglianza sanitaria da parte del Medico Competente definito per ogni specifica Azienda.
Contiene l’indicazione degli esami clinici e delle procedure mediche ritenuti dal Medico Competente idonei a valutare lo stato di salute del lavoratore in funzione dei rischi specifici. In considerazione degli indirizzi scientifici più avanzati prevede anche la verifica della copertura vaccinale obbligatoria o raccomandata a seconda dell’esposizione a rischi biologici. Dispone la periodicità degli accertamenti.

L’affermazione della necessità del vaccino anti Covid-19 quale misura di prevenzione e protezione è ancora più sostenibile qualora la necessità del vaccino sia inserita dal Medico Competente nel Piano Sanitario, quanto meno per determinate mansioni, e nei casi in cui la prestazione implichi l’interazione dei dipendenti con terzi (con le relative responsabilità del datore di lavoro).

Ancora di più nelle strutture sanitarie e socio-sanitarie, dove i terzi sono gli ospiti, soggetti che sono ad alto rischio di contagio a causa dell’età avanzata e delle possibili preesistenti patologie  e che hanno necessità di assistenza per alimentarsi e per ogni attività quotidiana.

Peraltro, in una struttura sanitaria o socio-sanitaria il principio della massima sicurezza possibile deve avere come destinatari non solo i dipendenti, ma anche degenti e ospiti.

Addirittura, la protezione della salute di degenti e ospiti è l’oggetto della prestazione richiesta agli addetti del settore, è elemento cardine della prestazione lavorativa. Oltre al fatto che le strutture sono esposte ad azioni di responsabilità risarcitoria da parte di chi, ricoverato, abbia contratto il virus in struttura.

Affrontiamo ora con molta semplicità alcuni casi:

  • il lavoratore dipendente dichiarato idoneo a precedente visita periodica non scaduta,
  • il lavoratore dipendente che rifiuta la seconda dose,
  • il lavoratore da assumere.

 

Ricordiamo che ci riferiamo sempre al lavoratore che svolge mansioni per le quali il vaccino è stato indicato come strumento di prevenzione/protezione nel Piano Sanitario: il Medico Competente può dichiarare il lavoratore renitente temporaneamente inidoneo a svolgere la mansione specifica, non potendo essere resa senza rischio per sé e anche per gli altri.

Come?  utilizzando il combinato disposto degli artt. 25 e 41.
1) Dunque, in ragione dell’integrazione del Piano Sanitario quanto alla vaccinazione il Medico Competente può modificare la periodicità della sorveglianza sanitaria, disponendo la visita medica dei lavoratori che rifiutano di sottoporsi alla vaccinazione stessa.
Il Medico Competente conferma così il suo ruolo fondamentale.

2)Lo stesso discorso si applica ai lavoratori che rifiutano la seconda dose.
3)Per i lavoratori da assumere la visita sarà quella di preassunzione, pure prevista dall’art. 41.

La sospensione della retribuzione può farsi discendere dalla impossibilità temporanea a rendere la prestazione per rifiuto di una misura di prevenzione/protezione per sé e per gli altri.
Peraltro, ritengo che ogni caso debba essere oggetto di specifica valutazione.
Viene qui in considerazione un tema complesso, quello del motivo del rifiuto a sottoporsi al vaccino, motivo che il datore di lavoro non può conoscere, salvo forse non gli sia comunicato personalmente dal lavoratore.

Un’ultima riflessione: si è fatto fino a qui riferimento al giudizio di inidoneità temporanea alla mansione specifica.
Ai sensi del comma 6 dell’art. 41, di cui si è detto, comma 6 “Il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche di cui al comma 2, esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:

  1. a) idoneità;
    b) idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
    c) inidoneità temporanea;
    d) inidoneità permanente.”
    Ci si domanda fino a quando duri la temporaneità dell’inidoneità alla mansione specifica del lavoratore renitente.
    Si può rilevare che l’inidoneità permanente alla mansione specifica, in mancanza di altra mansione cui il lavoratore sia idoneo, conduce alla cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento (peraltro, per giustificato motivo oggettivo, vietato fino al 31 marzo 2021).
    Tuttavia al momento, anche in considerazione dello stato delle conoscenze scientifiche, è del tutto opportuno che il giudizio sia di inidoneità temporanea della durata che il Medico Competente ritenga di fissare.

Quindi  il concetto della massima tutela della salute e sicurezza si deve riferire non solo ai lavoratori, ma anche ai terzi, quali ad es. degenti e ospiti.

Quando a poter entrare in contatto con i terzi sia  un operatore sanitario si rileva che l’oggetto della sua prestazione  sia la cura degli altri, e cioè la loro guarigione o il loro star meglio. Il che a fortiori implica l’ evitare il rischio che la loro salute possa subire pregiudizio dalla prestazione medesima.

Il datore di lavoro sa di dovere considerare il dipendente renitente come possibile contagiante, quindi con un obbligo di tutela degli altri dipendenti non vaccinati e degli ospiti che non possono vaccinarsi.

Ma l’ente sa anche di dovere considerare il dipendente renitente come possibile contagiato, quindi da tutelare.
La ragione è che, se il dipendente che ha rifiutato il vaccino, contrae il Covid-19, il datore di lavoro non è liberato da responsabilità per il solo fatto che lo stesso dipendente il vaccino lo aveva rifiutato.

Ricordiamo che, per l’interpretazione data dell’art. 2087 del codice civile, il datore di lavoro deve dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire l’evento dannoso.
Quindi, in via di prevenzione, cosa deve fare il datore di lavoro?
La prima fondamentale indicazione è che devono essere mantenuti tutti gli strumenti di prevenzione e protezione già attivi.

Il suggerimento rimane quello dato fin dall’inizio della pandemia: fare e anche tracciare ogni azione posta in essere dal datore di lavoro.
Se la revisione del rischio specifico ha la sua formalizzazione nel DVR e se il vaccino è previsto nel Piano Sanitario che il Medico Competente integra, altre attività non hanno una forma documentale predeterminata.

Quindi, quanto al vaccino in particolare, si consiglia ai datori di lavoro di formare dei dossier per dare atto del materiale informativo distribuito, come era stato fatto per l’uso dei DPI. Responsabili Covid e Comitati Covid si sono sicuramente già mossi da tempo.
Si tratta ora di tracciare la campagna di sensibilizzazione al vaccino, che deve proseguire. Abbiamo visto che non si può tralasciare lo stato delle conoscenze scientifiche, espresso in maniera molto semplice dall’Istituto Superiore di Sanità quanto a durata dell’immunità data dal vaccino e impedimento dell’infezione.

LA POSIZIONE DEL GARANTE DELLA PRIVACY

 

Il garante della privacy ha pubblicato sul proprio portale alcune indicazioni utili per gestire correttamente in un contesto emergenziale tutti quegli adempimenti che portano il datore di lavoro a venire a contatto con dati sensibili e particolarmente personali dei lavoratori.

 

Il Garante della Privacy ha drasticamente vietato alle imprese di verificare l’adempimento da parte dei propri dipendenti del dovere di vaccinarsi, anche quando dalle stesse indicato come misura di sicurezza nel luogo di lavoro.

 

Pertanto il  datore di lavoro non può acquisire, nemmeno con il consenso espresso del lavoratore e nemmeno tramite il medico competente, i nominativi  del personale che è stato vaccinato.

 

Il datore di lavoro quindi può solamente acquisire tramite il medico competente i giudizi di idoneità specifica alla mansione; viene inoltre precisato che in attesa di un intervento chiarificatore  del legislatore nazionale che imponga dei vaccini a dei lavoratori che sono per propria mansione maggiormente sottoposti a rischio ad agenti biologici quindi il rischio di essere contagiati dal virus i datori di lavoro possono esclusivamente limitarsi all’applicazione delle disposizioni del testo unico sulla sicurezza per la protezione dei propri dipendenti: quindi il riferimento all’articolo 279 del decreto 81 2008

In particolare, il Garante prende posizione sulla possibilità per il datore di lavoro di chiedere ai propri dipendenti conferma dell’avvenuta vaccinazione ovvero al medico competente i nominativi dei lavoratori vaccinati, nonché sulla possibilità di richiedere la vaccinazione anti Covid-19 come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e lo svolgimento di determinate mansioni.

La considerazione di fondo da cui parte il Garante per rispondere a tali quesiti è che solo il medico competente può trattare i dati sanitari dei lavoratori  e, tra questi, le informazioni relative  alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica.

Sulla base di tali considerazioni il Garante afferma che il datore di lavoro non può chiedere (direttamente)  ai propri dipendenti  di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia dei documenti che comprovino l’avvenuta vaccinazione. E ciò nemmeno con il consenso del lavoratore, considerato che il consenso  non può costituire una valida condizione di liceità del trattamento in ragione dello squilibrio delle parti nel rapporto di lavoro.

 

Per le stesse ragioni il datore di lavoro, aggiunge il Garante, non può neppure chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati.

Ma questo non significa che l’avvenuta vaccinazione o meno debba considerarsi priva di rilievo per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò che è precluso al datore di lavoro (il trattamento del dato relativo alla vaccinazione), ben può essere effettuato dal medico competente. Quest’ultimo infatti, «nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e lo specifico contesto lavorativo e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia  e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica.

In altre parole il medico competente può chiedere al lavoratore di documentare l’avvenuta vaccinazione, al fine di valutarne l’idoneità o l’inidoneità (anche parziale o temporanea) alla mansione. Al datore di lavoro il medico competente poi comunicherà l’esito di tale valutazione, e quindi il solo giudizio di idoneità/inidoneità con le  relative prescizioni e/o limitazioni in esso riportate.

Il datore  di lavoro si dovrà limitare ad attuare le misure indicate dal medico competente.

In sostanza, il Garante non contesta (né potrebbe farlo senza esorbitare dal suo ruolo) che la vaccinazione possa essere posta come requisito di idoneità per l’accesso ai luoghi di lavoro e/o per lo svolgimento di determinate mansioni. Si limita a rilevare che l’accertamento di tale requisito (che comporta un trattamento di dati sanitari) deve essere effettuato dal medico competente, il cui ruolo si conferma ancora una volta come centrale nella gestione dell’emergenza sanitaria Covid-19.

Non è stato messo in dubbio che, per alcune attività specifiche, il rifiuto del vaccino possa

compromettere l’idoneità del lavoratore alla mansione: tuttavia, tale giudizio deve passare attraverso il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria che ogni azienda è tenuta ad attuare.

 

Questo parere può essere richiesto dal datore di lavoro – ma il medico è libero di ignorare la richiesta oppure di compiere l’accertamento – oltre ad essere svolto durante i controlli periodici. In occasione della visita, il medico esprime – in totale autonomia – un giudizio sulla compatibilità tra la mancata vaccinazione (e più in generale sulle condizioni fisiche del dipendente) rispetto alla

mansione specifica cui è assegnato.

tamponi vaccinazioni luoghi lavoro 9.3.21

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